Alla ricercatrice del Laboratorio di Neurogenetica della Fondazione Santa Lucia la Borsa 2020 per le Neuroscienze
Si riconosce per la presenza del “Segno del Dente Molare”. Descritta per la prima volta nel 1968, la Sindrome di Joubert prende il nome dalla neurologa che l’ha individuata, ed è una patologia del neurosviluppo diagnosticabile osservando il cervelletto attraverso risonanza magnetica. In particolare, rilevando una malformazione nella fossa cranica posteriore simile appunto un dente molare. La diagnosi può avvenire in diversi momenti dello sviluppo e la sintomatologia è ampia: da una disabilità intellettiva lieve e atassia fino a patologie associate di organi come i reni, il fegato e la retina.
Per un progetto di ricerca su questa malattia la ricercatrice Roberta De Mori, Biologa e Dottore di ricerca in Scienze Morfogenetiche e Citologiche dal 2016 in forze al Laboratorio di Neurogenetica della Fondazione Santa Lucia si è appena aggiudicata una Post-Doctoral Fellowship 2020 assegnata della Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito delle Neuroscienze.
Da cosa nasce l’interesse per questa patologia?
Si tratta di una malattia rara, che tocca 1 persona ogni 100.000 ed è da sempre oggetto dell’attenzione della nostra linea di ricerca. Alcuni anni fa, all’interno di un progetto europeo la Professoressa Enza Maria Valente ha potuto analizzare attraverso l’exome sequencing moltissimi pazienti Joubert al fine di identificare le mutazioni responsabili, sia in geni noti che nuovi. Nel caso di geni nuovi, il lavoro di biologi, bioinformatici e genetisti era poi indirizzato a dimostrare che la mutazione identificata era effettivamente responsabile della Sindrome.
Cosa stavate cercando e come avete impostato il vostro lavoro di ricerca?
Poiché la Sindrome di Joubert è stata ricollegata a circa quaranta geni e, nonostante questi siano diversi e svolgano funzioni diverse, portano tutti alla stessa malformazione, ci siamo chiesti quale tra loro fosse il tratto comune. Per individuarlo abbiamo pensato che il modello perfetto fosse quello delle iPSC.
Di che si tratta?
Delle cosiddette Induced Pluripotent Stem Cells (iPSC), cellule pluripotenti ingegnerizzate da fibroblasti dei partecipanti alla sperimentazione. In sostanza, attraverso un prelievo bioptico della cute di , abbiamo potuto disporre delle cellule che “ricapitolano” tutto il background genetico del paziente e riportarle allo stadio di staminalità per confrontarne lo sviluppo con quello di cellule ottenute da controlli sani, applicando un protocollo che ci consente di differenziare le cellule proprio verso i granuli cerebellari, ossia neuroni del cervelletto, che rappresenta la regione interessata dalla malformazione.
Come interviene specificamente il suo progetto?
Con la mia attività sperimentale le iPS di diversi pazienti vengono progressivamente differenziate in senso cerebellare e “stoppate” in diversi momenti di tale sviluppo: a 8, 16, 24 e 31 giorni, quando i granuli cerebellari sono completamente sviluppati. Ad ognuno di questi stadi di crescita vengono valutati dei marcatori del differenziamento, analizzando mRNA e proteine. L’obiettivo è confrontare lo sviluppo tra pazienti e controlli attraverso il monitoraggio dei marcatori di sviluppo. Questo permette di individuare differenze significative nel differenziamento cerebellare associate alla presenza della mutazione genetica causativa della sindrome, aprendo la strada a studi futuri volti alla identificazione di strategie terapeutiche specifiche.